La sposa col sacco: la storia della donna che nessuno voleva.
Mi avevano sempre chiamata “troppo brutta per sposarmi”. Dicevano che il mio volto era una punizione divina, una macchia che portavo per colpa di chissà quale peccato dei miei genitori. Alla fine, mio zio decise di liberarsi di me vendendomi a uno sconosciuto. Mi obbligarono a indossare un sacco sulla testa, come se fossi merce da nascondere.
Ricordo le sue parole gelide: «Sarai fortunata se non ti uccide, ragazza.»
E quella notte, in una capanna sperduta tra le montagne, lo sconosciuto mi ordinò di togliermi il sacco. Il cuore mi si fermò in petto. Ma quando mi vide in volto, fu il suo a fermarsi. Perché il segreto che nascondevo era più oscuro di quanto avessero mai immaginato.
Il momento della verità
Le mie dita, rigide dal freddo, tremavano mentre cercavano di sciogliere la grossa corda che stringeva il sacco intorno al collo. Il tessuto ruvido mi graffiava la pelle e odorava di polvere, patate e paura.
Avevo immaginato quel momento mille volte nella mente, e ogni volta si concludeva con un urlo: il mio o quello del mio nuovo marito.
Tirai il nodo con un respiro spezzato e chiusi gli occhi, sussurrando una preghiera che nessuno avrebbe mai udito. Lentamente sollevai il sacco oltre la testa.
L’aria calda della capanna mi accarezzò il viso. Era la prima che respiravo da giorni. Tenevo lo sguardo basso, pronta all’inevitabile: il disgusto, la maledizione, il suono del suo respiro spezzato.
Ma non arrivò nulla. Solo silenzio.
Il crepitio del fuoco e il vento fuori erano gli unici rumori. Quel silenzio divenne più pesante di un urlo.
Non ce la feci. Sollevai lentamente la testa.
La sposa col sacco: Lo sguardo di Lorenzo
L’uomo che avevo davanti, Lorenzo Ferri, non guardava la lunga cicatrice che attraversava il mio volto, dalla tempia alla mandibola. Mio zio l’aveva sempre chiamata “il marchio del diavolo”, la ragione per cui ero stata venduta come un animale.
Ma Lorenzo non fissava la cicatrice. Mi guardava dritta negli occhi.
Il suo volto, temprato dal gelo e dalla solitudine, era impassibile. Non mostrava disgusto né compassione. Solo uno sguardo fermo, come se volesse leggere ogni segreto inciso sul mio viso.
Il mio cuore, che fino a un attimo prima batteva come un tamburo, esitò nella confusione.
«Sai cucinare?» chiese infine, con una voce bassa e profonda.
Sbattei le palpebre, incredula. Mi ero preparata a insulti o violenza, non a una domanda tanto comune.
«Sì,» risposi timidamente.
Lui annuì. «Bene. C’è una cassa di patate e cipolle accanto alla stufa. Prepara la cena. Io vado a controllare il cavallo. Non lasciare che il fuoco si spenga.»
E uscì, lasciandomi sola nella piccola capanna.
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