La fotografia sulla parete

La fotografia sulla parete
Storie di vita

La fotografia sulla parete.

Appena varcai la soglia dell’appartamento, un profumo familiare di lavanda e caffè appena fatto mi accolse come un vecchio abbraccio. Era come tornare indietro nel tempo, in un luogo dove ogni ricordo dormiva ancora tra le pieghe della memoria. I libri accatastati sul tavolino, il tappeto orientale consumato, le tende color azzurro chiaro: ogni dettaglio parlava di una vita condivisa, di giorni che credevo ormai perduti per sempre.

Ma poi la vidi.
Sulla parete del soggiorno, proprio sopra il piccolo divano di velluto color borgogna, una fotografia incorniciata catturò subito la mia attenzione. E ciò che vi trovai mi gelò il sangue.

Era l’immagine di un bambino. Un piccolo dai capelli castani e gli occhi profondi, con un sorriso così dolce da spezzarmi il cuore. Nella foto, il bambino era tra le braccia di Elena, che guardava la fotocamera con quello stesso scintillio negli occhi che non vedevo da più di cinque anni.

Ma non fu l’immagine in sé a togliermi il fiato. Fu quel dettaglio sottile, devastante: quel bambino… aveva il mio stesso sorriso.


La fotografia sulla parete: Il segreto di Elena

«Chi è?» chiesi, sentendo la voce spezzarsi nella gola.
Elena distolse lo sguardo, facendo un respiro profondo. «Si chiama Davide

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«Tuo figlio?» domandai, incredulo.

Lei annuì, incapace di sostenere il mio sguardo. In quel momento, un’ondata di pensieri mi travolse. Non poteva essere. Ricordavo ogni visita medica, ogni lacrima, ogni notte passata a consolarla. I medici avevano detto che era impossibile per lei avere figli.

«Ma… i dottori avevano detto che non potevi…»

«Lo so», mi interruppe piano, «avevano ragione. Non potevo avere bambini.»

Restai immobile, incapace di capire. Allora, chi era quel bambino che mi somigliava tanto?

Lei si voltò verso di me, con le lacrime che le rigavano il viso.
«L’ho adottato», sussurrò.

Quelle parole rimasero sospese nell’aria come una carezza e una ferita allo stesso tempo.

«Dopo che ci siamo lasciati», continuò con voce tremante, «mi sono iscritta a un programma di adozione. Non pensavo di avere più la forza di amare, ma un giorno, durante una visita a un centro per bambini a Verona, l’ho visto. Era seduto da solo, in un angolo, con una matita rotta in mano. Mi guardò, e nei suoi occhi vidi una solitudine che conoscevo bene.»

Elena sorrise tra le lacrime. «Era stato abbandonato dopo un incidente. Quando l’ho abbracciato per la prima volta, ho sentito qualcosa risvegliarsi dentro di me. Si chiamava già Davide. E sai la cosa strana? Era il nome che tu volevi dare a nostro figlio.»

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Il peso del passato e la luce del presente

Sentii il pavimento mancare sotto i piedi. Quel nome, Davide, era stato un sogno sospeso tra noi, un progetto mai realizzato. Mi fermai davanti alla foto, senza sapere cosa dire. Il bambino sorrideva con innocenza, ignaro del legame invisibile che ci univa.

«Mi somiglia», mormorai.

Lei abbassò lo sguardo. «Lo so. È questo che mi ha frenata dal dirtelo. Ogni volta che lui sorrideva, vedevo te. E non sapevo se fosse una benedizione o una condanna.»

Fuori, la pioggia iniziò a battere sui vetri, come se anche il cielo stesse piangendo.

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